Dal 23 al 25 settembre 2022 a Camogli si è svolta la seconda edizione di Cucina d’epoca, il festival dedicato alla cucina italiana ed europea nei diversi periodi storici, organizzato dal Comune di Camogli-Assessorato alla Cultura, dall’ASCOT-CIV e da Frame-Festival della Comunicazione, Rosangela Bonsignorio e Danco Singer.

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La seconda edizione di Cucina d’epoca è dedicata al Cinquecento: il Rinascimento, l’epoca d’oro della cultura italiana anche riguardo alla cucina, che, come le altre arti, si impone in Europa come modello di riferimento. Cristoforo Messisbugo, alla corte estense di Ferrara, dirige le procedure di cucina e gli allestimenti di tavola, informandoci nel suo ricettario anche sulle opere teatrali che si davano a corte durante i banchetti e sulle musiche e i musicisti che le eseguivano. Bartolomeo Scappi, che è stato definito “il Michelangelo della cucina”, alla corte pontificia di Roma produce un monumentale ricettario, l’opera massima della cultura rinascimentale in versione culinaria, dove riassume i saperi e le pratiche di un paese politicamente diviso, ma culturalmente unito dal gusto e dalla cucina, così come dall’arte, dalla letteratura, dalla musica.
Nel Cinquecento matura la tradizione medievale delle torte salate, dette anche “pastelli” o “pasticci”, capolavoro assoluto di quella cultura gastronomica. È anche l’epoca in cui si consolida in Italia la tradizione della pasta in tante sue varianti e formati diversi. Carni e pesci sono lavorati a un livello di altissima complessità, ma è soprattutto con le verdure che la cucina italiana dà il meglio di sé, raggiungendo vertici qualitativi unici, con incroci inattesi fra cultura di élite e cultura popolare, cucina delle corti signorili e cucina contadina. Luogo chiave di questo incontro è la città, che favorisce scambi e contaminazioni fra mondi diversi, mettendo in gioco i saperi dell’intero corpo sociale, le raffinatezze tecnologiche delle brigate di cucina impegnate a corte e il radicamento territoriale delle culture alimentari contadine, orientate verso cereali, legumi, ortaggi. Proprio questa capacità di intercettare la cultura popolare, rielaborandola in modo “alto”, è la cifra distintiva della cucina italiana del Cinquecento, che farà scuola in Europa.
Nel frattempo sono comparsi nuovi cibi, importati dal nuovo continente appena scoperto oltre Oceano da Cristoforo Colombo. Nuove realtà con cui proprio nel Cinquecento la cucina italiana ed europea comincia a confrontarsi, aprendo nuovi orizzonti al gusto.

 
 

A Cucina d’epoca si ha l’occasione di riscoprire aspetti significativi della tradizione genovese e ligure, a cominciare dalle torte salate, specialità tipiche del Rinascimento italiano: croste di pasta sfoglia ripiene di verdure e formaggio, talvolta di carne o di pesce, di cui esistono infinite varianti nella letteratura gastronomica dell’epoca, nonché frequenti rappresentazioni nei documenti figurativi.
Alcune città in particolare sono famose per queste torte: Genova fra tutte, come attesta Ortensio Lando, autore di una curiosa opera intitolata Commentario delle più notabili, & mostruose [= meravigliose] cose d’Italia (1548), una sorta di tour gastronomico attraverso il paese: l’autore guida un immaginario visitatore alla scoperta delle specialità alimentari italiane, indicando per ogni luogo quali siano le migliori e più caratteristiche. Il viaggio, cominciato in Sicilia, si conclude a Genova (dove l’ospite si imbarca per fare ritorno a casa) e Lando gli raccomanda di non partire senza avere gustato le “torte dette gattafure”, di cui lui stesso era ghiotto: “a me piacquero più che all’orso il miele”. Il nome, secondo Lando, significherebbe che “le gatte volentieri le furano [rubano]”. Ma aggiunge: “chi è sì svogliato che non le furasse volentieri?
Ancora oggi, la cucina genovese e ligure conserva vivissima la tradizione delle torte salate, che ne rimane una riconosciuta specialità nel contesto italiano. A darci la ricetta della “gattafura genovese” è Bartolomeo Scappi, il più importante cuoco del Rinascimento italiano, autore di un trattato di cucina (1570) che riassume il meglio della cultura gastronomica italiana del tempo. Eccola:

Per fare gattafura alla Genovese.
Si prendano struccoli ovvero agretti, i quali sono caci freschi fatti d’un giorno senza sale, e quando hanno alquanto del forte sono assai meglio. Si pestino nel mortaio tanto che vengano come butiro, e si mescolino con biete trite, e un poco di menta battuta, e pepe pesto, poi si abbia uno sfoglio di pasta, e si stenda sopra il suolo di rame unto di butiro, e si ponga sopra esso sfoglio la compositione, che non sia alta più di mezzo dito, e sopra essa compositione si sparga olio dolce, e si copra con un altro sfoglio sottilissimo, e facciasi cuocere nel modo sopradetto, e servasi calda, perché fredda non val niente. È ben vero che molte volte si riscaldano sopra la graticola, e in questo modo si possono fare anche nelle tortiere.
Al suo immaginario viaggiatore, Lando racconta che a Genova potrà anche assaggiare le caratteristiche “presenzuole” [è l’italianizzazione del termine ligure prescinsêua, latte rappreso e inacidito che si mette nei ripieni, nelle torte e in molte altre vivande: uso simile a quello che altrove si fa della ricotta] e poi buoni fichi e “schiacciate fatte di pesche e di cotogni”, il tutto accompagnato da ottimi vini, come il moscatello di Taggia (“tanto buono che se in uno tinaccio di detto vino mi affogassi, parrebbemi far una felicissima morte”) o il razzese.

 

Nota di Massimo Montanari

Nel Cinquecento come nel Medioevo c’è una netta distinzione fra cibi “di grasso”, con carne, e cibi “di magro”, senza carne. La distinzione è legata al calendario liturgico: i giorni di magro sono il mercoledì e il venerdì, talvolta il sabato e la vigilia delle feste principali, oltre al periodo di Quaresima. Tutti gli altri sono di grasso. Oggi questa distinzione non esiste più, ma in ogni caso, qualunque scelta si faccia, per corrispondere allo spirito dell’epoca non si devono inserire carne e pesce all’interno dello stesso pasto.
Fra le carni, si prediligono soprattutto quelle di volatili, domestici e selvatici: capponi, pollastre, gallinacei, selvaggina da penna. Anche gru e pavoni, all’epoca. Compare anche il tacchino, “nuovo venuto” dall’America, che spesso prende il posto del pavone o dell’oca, ed è chiamato “gallo d’India”. La passione medievale per la selvaggina grossa (cinghiale, cervo, ecc.) adesso ha lasciato posto a questi sapori più “delicati”. Fra i quadrupedi, nella cucina di corte italiana si cominciano a stimare il manzo e il vitello, più che il tradizionale maiale.
La cucina rinascimentale, non solo popolare ma anche di corte, ha una grande attenzione alle “frattaglie” e utilizza tutte le parti degli animali, carni o pesci che siano. Fra i pesci compaiono non solo prodotti del mare ma anche, abbondantemente, di acqua dolce: lamprede, salmoni, storioni. Nella cucina signorile si fa ampio uso di spezie, simbolo di prestigio sociale: in particolare cannella, chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, zafferano, pepe.
Alle spezie si aggiunge lo zucchero, percepito come una sorta di spezia dolce. Il Cinquecento è il secolo d’oro dello zucchero, che entra nella composizione di tutti i piatti. Ci sono poi le gelatine di frutta, i confetti ricoperti di zucchero, le composte e confetture… Le vivande (soprattutto la carne ma non solo) sono sempre accompagnate da una salsa, ma non si tratta di salse grasse come quelle moderne a base di burro o di olio e non impiegano farina come addensante. Sono salse magre, di gusto acido e speziato, a base di succhi di frutta acida e di erbe aromatiche. Per ispessire, niente farina, ma mollica di pane. Si fa grande attenzione al colore delle salse, che proprio dal colore spesso prendono nome. Al gusto speziato e acido delle salse si affianca una forte predilezione per il gusto agro-dolce. Per ottenere l’agro si usano limone, arance amare, aceto e l’“agresto”, che è un succo di uva acerba. Per il dolce, ovviamente, lo zucchero.
Per quanto riguarda i vini, si delinea fin da allora la tendenza ad aumentare l’intensità col procedere del pasto: dai più leggeri ai più corposi. Per chiudere, si usa di solito un vino speziato, spesso detto “ippocrasso”. La forma dei tavoli normalmente è allungata, rettangolare nell’uso prevalente in Italia e in Francia. Spesso è aperta su un lato per consentire ai convitati di assistere agli spettacoli di teatro, musica e danza che si svolgono nella sala da pranzo. Non mancano però tavoli quadrati o rotondi come nell’uso tedesco che favoriscono la conversazione e la convivialità.
Massimo Montanari
NOTA: per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento o a trovare indicazione di singole ricette rinascimentali e il modo di metterle in pratica oggi, il testo più indicato e attendibile è A tavola nel Rinascimento (Laterza, 1996) di Françoise Sabban e Silvano Serventi